Prendo
in prestito il motto della città di Parigi – colpito dai flutti non affonda
– per tentare di sintetizzare in una giornalistica battuta la complessa e non
facilmente leggibile situazione determinata dal risultato referendario del 4
dicembre.
Il
multiforme contesto induce ad articolare una riflessione per singoli punti,
tentando poi una chiusura di sintesi.
In
primo luogo va sottolineata l’asprezza del confronto spesso degenerato in
aperte manifestazioni di inusitata violenza verbale; la diffusione e la
reiterazione di tali comportamenti, amplificati oltre misura dalla pervasività
del mezzo telematico dei social, fa ritenere che il tratto comune sia in quella
che designerei come la negazione dell’interlocutore; non si
percepisce più chi si ha difronte come contraddittore ma piuttosto come
ostacolo all’affermazione della propria verità o del proprio interesse, se non
come vero e proprio nemico da abbattere;
tale
preoccupante atteggiamento, oltre ad essere determinato da una pesante e
perdurante situazione di crisi economica, trova nel mezzo telematico una
particolare copertura, quasi che la veicolazione attraverso i social, evitando
il contatto diretto e visivo e liberandoci dall’obbligo di “guardare
una persona negli occhi”, sia salvacondotto e guarentigia per la
liberazione degli istinti più repressi e asociali, che albergano nel fondo di
ognuno di noi;
il
dato è particolarmente preoccupante, perché si sostituisce il confronto lungo
le linee della ragionata esposizione delle rispettive , con una sorta di
virtuale battaglia di slogan agitati come le lame rotanti di Ufo robot e
condite dalla sistematica denigrazione ed umiliazione del (contradditore /)
nemico; è necessario che la politica si faccia carico di disinnescare la
perniciosa carica esplosiva di tali comportamenti, riproponendo un confronto
dialogico e democratico, secondo strumenti aggregativi e di azione più adeguati
ai tempi.
Ritengo
che il primo portato di questo referendum sia un elemento di chiarezza, da
identificarsi in una ideale linea di confine tra chi è animato da propositi di
reale cambiamento dell’esistente e coloro i quali invece sono arroccati in una
oggettiva posizione conservativa;
la
proposta partizione potrà essere, prima facie, tacciata di eccessiva
semplificazione, ma ritengo sia un legittimo tentativo di disegnare una
possibile chiave di lettura dell’esistente e dei suoi futuri potenziali
sviluppi;
chi
ha sostenuto il SI alla riforma ha aderito convintamente alla necessità di
strutturare l’apparato statale ed amministrativo (e non i principi fondanti
della nostra Repubblica, immodificati) in un modo più corrispondente alle
esigenze della odierna realtà internazionale, europea ed economica; la
condivisione dei principali punti della riforma, quali il superamento del
bicameralismo perfetto, la regolazione della decretazione d’urgenza e
l’introduzione del voto a data certa, l’abolizione definitiva delle province e
del CNEL, l’introduzione del referendum abrogativo a quorum variabile e di
quelli propositivi e di indirizzo, la riscrittura del riparto di competenze tra
Stato e Regioni, la competenza dello Stato di dettare regole generali e comuni
per assicurare l’esercizio effettivo in tutto il territorio nazionale dei
diritti garantiti dalla prima parte della Costituzione, l’introduzione dei
principi di trasparenza nell’azione della PA, l’esercizio delle funzioni amministrative
secondo i principi della semplificazione e della trasparenza e con criteri di efficienza e di responsabilità
degli amministratori, i limiti agli emolumenti dei consiglieri regionali ed
altri, ampiamente oggetto della compagna referendaria, mi esime dal riproporne
il riesame;
chi
ha votato NO ha sostenuto l’esistenza di una lesione alla sovranità popolare,
sostanziata dalla mancata previsione nel testo della riforma della elezione a
suffragio diretto dei futuri senatori, della farraginosità del procedimento
legislativo, stante le differenti competenze delle due camere, il pericolo,
favorito dalla legge elettorale denominata Italicum, della concentrazione del
potere in un solo partito e consequenzialmente nelle mani del leader di
quest’ultimo; intorno a questi argomenti nel merito della riforma, si sono
coagulati la conservazione degli interessi lesi dalla riforma (per un esempio
locale, rinvio alla freddezza in campagna elettorale della stragrande
maggioranza dei consiglieri regionali qui in Calabria), la paura del
cambiamento ed un voto di contestazione nei confronti del governo e del suo
primo ministro; e questo coacervo è tanto più confermato, in questa parte
meramente demolitiva della proposta di rinnovamento e conservativo
dell’esistente, dalle successive prese di posizione delle maggiori forze che
hanno sostenuto il NO (Movimento 5 Stelle e la Lega Nord), che si limitano a
reclamare le dimissioni del premier in carica e il ricorso immediato alle urne
(per una interessante lettura su questo aspetto meramente demolitivo in chiave
psico-politica: http://www.unita.tv/interviste/recalcati-un-paese-vittima-dellodio-che-gode-nella-distruzione/).
La
varietà ed eterogeneità delle motivazioni del NO sopra tratteggiate rendono il
cumulo dei voti ottenuti da questo schieramento una somma difficilmente
traducibile in una proposta politica concreta e coerente, tale da trasformarsi
in un programma di governo condiviso; in altri termini, se il fronte del NO è certamente
una maggioranza referendaria, altrettanto certamente non è una maggioranza
politica; al contrario, lo schieramento del SI ha una sua coerenza
interna, risultando essere certo minoranza referendaria, ma incontestabilmente,
maggioranza (relativa) politica; fluctuat nec mergitur;
per
queste ragioni ritengo non condivisibili i trionfalismi di chi parla di
vittoria di popolo ovvero di patriottismo costituzionale; tali giudizi
tranchant tendono a nascondere (chi in modo consapevole a fini strumentali, chi
in modo ingenuo ma politicamente miope) la oggettiva varietà di motivazioni nel
tentativo di far apparire come unitari e coesi i consensi ottenuti.
La
tesi interpretativa suggerita mi sembra confortata dall’analisi dei voti numerici
e non percentuali; i voti ottenuti dal Sì nel referendum di domenica
(12.709.515) sono superiori alla somma dei voti (12.375.211) ricevuti alle
Europee del 2014 dal Pd (11.172.861) e da Ncd (1.202.350); sono anche superiori
anche ai voti ottenuti dal Pd di Walter Veltroni nel 2008 (12.095.306), la cui
coalizione riuscì a raggiungere quota 13.689.330 voti solo grazie all'aggregazione
di forze non assimilabili alla galassia riformista come Italia dei Valori
(1.594.024); ampiamente superiori anche ai voti conseguiti nel 2013 dal Pd con
la segreteria di Pierluigi Bersani (8.646.034 voti) con una coalizione composta
da Sel, Centro Democratico, e Svp. Per un raffronto con il referendum del 2006
sulla riforma costituzionale approvata dal centrodestra abbiamo il Sì
(9.625.414) con il 38,36% e il No (15.467.363) 61,64% (http://www.huffingtonpost.it/andrea-camaiora/il-nuovo-partito-di-renzi-ce-gia_b_13452824.html).
Le
analisi del voto dimostrano, peraltro, che il voto contrario è stato spinto da
condizioni di marginalità e disagio sociale, percepite come forti e di cui nella
manifestazione di voto si è contestata l’esistenza al governo, addebitandogli
la incapacità di interpretare e risolvere tali problemi (in dettaglio http://www.cattaneo.org/press_release/referendum-sociale-o-costituzionale-torna-il-problema-delle-periferie-per-il-pd/).
Questo
dato induce a riflettere sulla attuale capacità delle cc.dd. classi dirigenti o elite
di governo di cogliere realmente e dare risposte alle esigenze e i
problemi dei cittadini (per un’analisi su un tema diverso – Brexit – ma
calzante nella disamina e nella soluzione indicata, Stephen Hawking http://www.repubblica.it/economia/2016/12/07/news/le_e_lite_imparino_l_umilta_o_il_populismo_sara_trionfante-153609352/); invero, la chiusura delle elite di
governo in moduli di analisi e di ragionamento in parte superati dai tempi,
supportata da una presunta consapevolezza di essere portatori della posizione
giusta in assoluto e come tale sottratta ad ogni debito confronto democratico, trasuda
in una insopportabile hybris intesa come orgoglio, superbia, intollerabile e
quindi drasticamente rifiutata in ogni occasione elettorale che si presenti da
coloro che si sentono esclusi e non garantiti da tali processi decisionali ristretti
nella decisione di pochi;
ulteriore
dato confermativo è l’alta partecipazione alle urne referendarie, che ha fatto
accorrere al voto una considerevole quota di astenuti ‘cronici’ per far sentire
la loro voce di protesta (http://www.cattaneo.org/press_release/la-partecipazione-elettorale-al-referendum-costituzionale-del-4-dicembre-2016/); donde il ponderato e condivisibile richiamo
all’umiltà di Stephen Hawking .
L’ampio
divario tra i consensi del SI e del NO rende non soltanto numericamente ma
anche e soprattutto politicamente irrilevante il contributo dato dalla
sinistra al di fuori ed interna al PD alla vittoria del NO; il
risultato colto nell’immediato è sterile in una prospettiva futura, come in
ogni politica meramente demolitiva o di contrasto (http://www.cattaneo.org/press_release/voto-per-il-no-e-voto-alle-elezioni-politiche-del-2013/).
All’esterno
il vero vincitore del NO è Beppe Grillo con il suo M5S e Salvini con la Lega;
in misura minore Meloni e FI del redivivo Berlusconi; all’interno la sinistra
PD è minoranza nel partito, salvo che non vi sia un improbabile rompete le
righe nello schieramento che sostiene l’attuale leader, il quale avrà gioco
facile ad un futuro eventuale congresso.
Ipotizzando una conclusione, direi che dal voto referendario e dalle
considerazioni sopra svolte discende con urgenza la necessità
della ricostruzione del soggetto partito come agorà collettiva di confronto e
sintesi nella elaborazione di una proposta politica; soltanto una organizzazione di gruppo può garantire contro i rischi di un
personalismo leaderistico; non soltanto per evitare il noto brocardo simul stabunt
simul cadent che si realizza quando la proposta politica nasce cresce e si
sviluppa attorno ad un singolo, legando i propri destini indissolubilmente ai
destini personali del leader (si pensi a Forza Italia oggi e, in prospettiva
contraria, al M5S);
quanto piuttosto per essere la prospettiva di azione del gruppo
necessaria garanzia di respiro diverso da quella del singolo, che potrebbe
essere tentato ad azioni politiche utili al suo tornaconto ma dannose per la
collettività ed il gruppo da esso rappresentato; il soggetto collettivo
partito, nella sua necessaria anche se a volte estenuante mediazione e
confronto di interessi diversi, garantisce una migliore interpretazione
dell’interesse collettivo.
Se
la politica è l’arte di mettere in moto la realtà, diventa necessario e non più
rinviabile avviare la riflessione sulla forma partito, avendo ben presente
che soltanto uno strumento partito realmente aperto e condotto attraverso un
confronto dialettico su temi e proposte concrete (e non su carrierismi
personali o confederazioni di correnti che si muovono secondo logiche di
opportunistica conservazione del potere) potrà avere una qualche speranza di
recuperare il divario sempre più ampio che si registra tra la classe dirigente e
l’elettorato, che sempre più spesso si rifugia nell’astensione, laddove non
individua proposte politiche condivisibili nelle consultazioni politiche, o nel
voto di pura protesta, come nel recente caso referendario.