E
soprattutto chi sarà ? O meglio cosa potrebbe (vorrebbe) essere ?
Questa è la domanda sottesa del congresso 2019 e
parzialmente disvelata dal ritiro della candidatura di Marco Minniti; la
decisione è ufficialmente motivata dallo stesso Minniti con la esigenza “irrinunciabile che il congresso ci debba
consegnare una leadership forte e legittimata dalle primarie”, aggiungendo
la considerazione che “ho però constatato
che tutto questo con così tanti candidati potrebbe non accadere. Il mio è un
gesto d’amore verso il partito”.
In realtà sembra che il motivo profondo ed ultimo
sia il disinteresse dichiarato da Renzi verso le vicende congressuali; nata
come candidatura dell’area renziana del partito, la ambiguità della attuale
posizione dell’ex segretario avrebbe fortemente inciso, rendendo incerto
l’orizzonte strategico della corsa alla segreteria di Minniti.
E qui riaffiora il nodo non sciolto di questa
stagione contrattuale e che ne ha determinato una partenza al rallentatore,
dopo un anno esatto dalla pesante sconfitta del 4 marzo 2018: cosa fare del
passato (e degli uomini che lo maggiormente incarnato) e quale direzione futura
intraprendere (e con quali leader).
Il piano inclinato nell’interpretare il congresso
come una ‘resa dei conti’ tra leader
contrapposti, ed in particolare contrapposti a Renzi, ha impedito per tempo
l’avvio di un vero dibattito politico che possa affrontare prioritariamente le
questioni organizzative del partito che verrà e il programma politico da
sottoporre agli elettori.
Questo piano inclinato è un amaro lascito della
imperante personalizzazione dell’attività politica, costruita sempre più
attorno ad un leader che, piuttosto che essere alfiere di un progetto politico
elaborato dal soggetto collettivo partito, è esso stesso il progetto politico,
dettandone le linee e gestendole secondo esigenze più personali che del gruppo:
simul stabunt, simul cadent.
La personalizzazione, nata nel campo del centrodestra,
ha sempre più contaminato anche lo schieramento progressista ed il PD,
intrappolando la dialettica politica interna, connaturata in un gruppo
articolato, in un loop infinito e sterile, configurato su due uniche posizioni
possibili : pro o contro il leader di turno.
Tale impostazione trascura due elementi
essenziali di un corretto e positivo rapporto tra il leader ed il gruppo; il
leader nel suo ruolo di guida conduce il gruppo e dà allo stesso prospettive di
azione e sviluppo sempre più feconde ed efficiente; nel contempo, però, lo
stesso leader è debitore del gruppo per la sua posizione di preminenza rappresentativa.
In altri termini, per restare nella cronaca di
questi giorni, è ben vero che Renzi, nella sua veste di segretario, ha dato
molto al PD, conseguendo risultati elettorali e politici di attuazione del
programma vasti e notevoli; ma è altrettanto vero che Renzi, senza il PD,
sarebbe ancora oggi un oscuro consigliere provinciale o regionale della sua
regione di nascita; e sfido chiunque (tranne, per ovvie ragioni, i fiorentini
ed i toscani) a ricordare il nome di un consigliere della provincia di Firenze
o della regione Toscana.
A questo aspetto è direttamente collegato l’altro
elemento, costituito da quella che potremmo designare come responsabilità del
singolo leader nei confronti del gruppo che lo ha designato; nei momenti di
scelte impegnative, come questa che dovrà essere oggetto del congresso, è
necessario anteporre ai propri personali desideri o aspirazioni l’interesse ed
il cammino strategicamente politico del gruppo partito.
La ormai ufficializzata scelta di Renzi di non
partecipare di nuovo al congresso come candidato segretario, se da un lato
determina uno schiarimento dell’orizzonte politico di svolgimento dello stesso,
dall’altro non appare in linea con la su delineata responsabilità del leader
nei confronti del partito che lo ha investito della massima rappresentanza,
specie nella motivazioni addotte, conservando un consistente margine di
ambiguità; affermare che sia meglio occuparsi della opposizione all’attuale
governo – obiettivo peraltro condivisibilissimo – piuttosto che delle vicende
congressuali del proprio partito, appare come un fuga da quanto realizzato
sinora, grazie anche al proprio partito; la posizione assunta svilisce e
rinnega il ruolo del partito quale potente strumento di azione politica: quale
migliore strumento del gruppo organizzato per realizzare una opposizione
determinata ed efficiente al governo ?
Anche qui è evidente il frutto avvelenato della
personalizzazione : sono io leader che conduco l’opposizione ed il partito mi seguirà
e non più correttamente e proficuamente condurre l’azione politica di
opposizione tramite il gruppo, che si rappresenta come leader scelto dalla
comunità organizzata (e non investito da astratte entità terze).
La teoria del ‘fuoco amico’ che avrebbe determinato la sconfitta (si badi, del PD,
e non) di Renzi, continua a perpetuare la trappola del personalismo, che non
riesce a distinguere il progetto politico del gruppo partito dal programma del
leader; confusione oggi esiziale per le sorti del PD.
Valga la considerazione, quasi cronachistica, del
fatto che chi ha maggiormente avversato l’ex segretario, (per i più svariati
motivi, anche qui in molti casi di natura più personale che squisitamente
politica), o è stato da questi avversato, ha abbandonato la nave del partito da
tempo, con miseri raccolti elettorali, rispetto alle aspettative, fino ad un
odierno finale ‘rompete le righe’ del cartello elettorale creato per
l’occasione; tanto dimostra la attuale inconsistenza della tesi come causa
efficiente, riducendosi la stessa ad un mero alibi per tentare di eludere gli
errori politici commessi.
È vitale per le future sorti del PD e di un suo
rilancio e ripresa presso gli elettori focalizzare il dibattito congressuale
sulla concezione del partito come gruppo organizzato determinante la propria
linea politica, attraverso il confronto democratico di diverse posizioni, in
una sintesi che sarà consegnata per l’attuazione al segretario ed alla
segreteria, abbandonando la deriva deleteria di una concezione personalistica
del leader.
In questa prospettiva sarebbe proficuo esplorare
e considerare ulteriori convergenze degli attuali candidati alla carica di
segretario, peraltro positivo sintomo della ricchezza del dibattito interno al
gruppo partito, scremando le candidature a due / tre al massimo ancor prima
delle convenzioni di circolo.
Tanto consegnerebbe al vincitore un risultato
finale chiaro e netto, frutto di una scelta ragionata e trasparente della
platea elettorale, determinandone un forte mandato politico.
La convergenza, di queste ore, del gruppo
Laburisti Democratici, con il suo leader Cesare Damiano, sul candidato Nicola Zingaretti
è un segnale di conferma e confortante di una politica ragionata ed includente,
in cui il bene comune prevale sulle aspirazioni personali del singolo.