martedì 13 marzo 2018

Elezioni politiche 2018: una rivoluzione (annunciata) ? Una prima riflessione.




La nettezza del risultato elettorale induce a ragionare esaminando piuttosto le ragioni del risultato (in numeri assoluti e percentuali, nonché qualitativo), che non la individuazione del vincitore e dei perdenti;

Il dato dell’affluenza è in lieve flessione rispetto alle politiche del 2013 (oggi 72,9% contro il 75,2 di allora), dato più basso di tutte le elezioni politiche nazionali, ma non tale da poter parlare di crollo, a testimonianza della importanza attribuita dai cittadini a questo tipo di elezioni.
La presenza di un più ampio ventaglio di forze politiche, caratterizzata anche dalla presenza di forze dichiaratamente ‘anti-sistema’ o di protesta hanno sostenuto la partecipazione al voto.
Tanto ha influenzato anche la differente partecipazione per aree geografiche e per partiti, determinando il successo del M5S nel meridione, con sostenute percentuali di partecipazione al voto, e, per converso, una forte diminuzione della stessa in alcune aree del centro – nord, incidendo in particolare sul voto storico del PD, rifluito verso l’astensionismo (http://www.cattaneo.org/wp-content/uploads/2018/03/Analisi-Istituto-Cattaneo-Elezioni-Politiche-2018-Partecipazione-5-marzo-2018.pdf).

Prima di considerare i risultati delle singole forze politiche, ritengo necessaria una precisazione semasiologica, che per quanto possa apparire puntigliosa, mi sembra oltremodo utile per comprendere quanto uscito dalle urne e, ancor più, per tentare di dischiudere una prospettiva, sia generale che per i singoli attori presenti sulla scena.

Ritengo che un ‘vincitore’ in sede di elezioni debba soddisfare due condizioni, in modo cumulativo e non alternativo: ossia:
1 - raccogliere un congruo numero di consensi e
2 – trasformare quei consensi in maggioranza di governo, secondo la legge elettorale data.

Non voglio intraprendere alcuna lamentazione circa la, asserita o reale che sia, inadeguatezza della vigente legge elettorale ad assolvere al compito precipuo di ogni legge elettorale che si rispetti, ossia tentare di trasformare i voti in maggioranza di governo, garantendo nel contempo una adeguata rappresentatività delle forze politiche.
Assumerò la legge elettorale vigente come dato in questo momento non discutibile (e non commentabile qui ed ora), annotando soltanto che in un sistema sostanzialmente tripolare, tra partiti e coalizioni, è difficile e delicato coniugare, in modo accettabilmente condiviso e soddisfacente, i due requisiti summenzionati : principio di rappresentanza e principio di governabilità.

Fissate le due ricordate condizioni, appare facile concludere che, se vi sono due soggetti che raccolgono un sostenuto consenso elettorale (M5S e Lega), parimenti gli stessi non hanno una maggioranza autonoma di governo, anche in riguardo all’essere due proposte politiche presentatesi agli elettori come concorrenti;
per converso, vi è un evidente perdente (in realtà più d’uno, ma il principale è) : il Partito democratico, il quale perde consensi e maggioranza (relativa per il Senato), soddisfacendo, così, in negativo, entrambe le condizioni delineate.

La evidenziata precisazione ritengo sia utile al fine di individuare una futura rotta per un possibile governo; alla luce delle considerazioni esposte, appaiono inconferenti e non aderenti alla realtà i proclami di vittoria lanciati dai leader dei due gruppi pretesamente vincitori, avendo ognuno di essi necessità di cercare alleanze per conseguire una maggioranza di governo;
e tanto è maggiormente incidente sul M5S, vista la sua gelosamente sottolineata identità alternativa al c.d. ‘sistema’ dei partiti e che solo nell’ultimo periodo, con la designazione di Di Maio quale premier, appare ammorbidita;
inoltre, pur avendo i due gruppi diversi contatti programmatici, risultano essere divisi dalle ambizioni di premeriato delle rispettive figure di riferimento (Salvini e Di Maio);
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Il Movimento 5 Stelle raggiunge il miglior risultato nella sua breve vita sulla scena politica italiana, mostrando di superare le difficoltà registrate in alcune amministrazioni locali e nella scelta dei candidati a queste elezioni;
conquista voti ai danni del Pd, ma nelle città del Nord ne cede a vantaggio della Lega; viceversa al Sud, dove la presenza della Lega è meno marcata, vi è solo il flusso in entrata dal PD e non anche il secondo in uscita;
questo ha determinato la diversità territoriale di consenso e non solo; la politica rassicurante promossa da Di Maio, unitamente al defilarsi di Grillo, ha attratto il voto in uscita degli scontenti del PD, ma determinato una perdita nei confronti della Lega, rappresentata dalle quote di elettorato 5 Stelle più radicali nella contestazione originaria del sistema; in altri termini “sembra dunque che la natura stessa del Movimento e dei suoi elettori, finora connotata dal segno della protesta, stia vivendo un profondo stato di fluidità e cambiamento. In particolare, la sfida del consolidamento della fedeltà elettorale che attende il M5s dipenderà sempre di più dal carattere istituzionale e propositivo delle sue future scelte politiche, e questo può diventare per il Movimento un elemento di profonda incertezza elettorale” (fonte Istituto Carlo Cattaneo, http://www.cattaneo.org/wp-content/uploads/2018/03/Analisi-Istituto-Cattaneo-Elezioni-Politiche-2018-Movimento-5-stelle-8-marzo-2018-1.pdf)

Oggi il Movimento 5 Stelle è di fronte ad una prova politica di non poco conto; ha creato con la sua protesta una notevole dose di aspettative, tradotte in un considerevole consenso elettorale, non tradotto però ad una maggioranza di governo autosufficiente;
il bivio cui è giunto è di quelli che cambiano la natura stessa delle cose: o tenta di formare un governo di coalizione, smentendo così ed in modo profondo la sua principale caratteristica di (voler) essere (e dichiararsi) fuori e lontano dal sistema dei partiti, ovvero rifiuta o non riesce a formare il governo coalizionale, confessando così una sua incapacità di trasformare il consenso ricevuto in forza di governo e, quindi, di effettivo cambiamento;
detto in altri termini, o diventa un partito come gli altri (con le conseguenti imprevedibili ma certe ricadute in termini di consenso elettorale) o si rinserra (o è costretto a rinserrarsi) in uno sterile Aventino.

Nel centrodestra, che come coalizione è il primo gruppo politico, la Lega, triplicando i propri voti rispetto al 2013 e con significative presenze anche nelle regioni meridionali, diventa il gruppo leader; tra il 1994 e il 2001 il suo peso all’interno della coalizione era di circa il 30%, oggi è pari al 55,50% della stessa area politica (ibidem http://www.cattaneo.org/wp-content/uploads/2018/03/Analisi-Istituto-Cattaneo-Elezioni-Politiche-2018-Chi-ha-vinto-chi-ha-perso-5-marzo-2018-2.pdf).

Come sopra ricordato, l’unico reale perdente è il PD; tra le elezioni del 2013 e quelle odierne perde 2.613.891 consensi in valore assoluto, che corrispondono a una variazione percentuale pari a –30,2%. In termini di variazione in punti percentuali, rispetto alla prestazione del 2013, alla Camera il PD ottiene 6,7 punti in meno.
L’emorragia di voti va a beneficio del M5S e, in misura minore, verso la Lega e l’area dell’astensione; incide anche la perdita causata dalla formazione di Liberi e Uguali.
Una fonte di acquisizione di voti è invece rappresentata dall’elettorato che nel 2013 scelse la allora presente coalizione di Monti, voti già riversati nelle precedenti elezioni europee; “in conseguenza di questi flussi (immissione di ex-montiani, uscita di elettori “tradizionali” di sinistra) l’elettorato Pd si è ridotto in termini quantitativi e la sua composizione è mutata in termini qualitativi”  (ibidem http://www.cattaneo.org/wp-content/uploads/2018/03/Analisi-Istituto-Cattaneo-Elezioni-Politiche-2018-Chi-ha-vinto-chi-ha-perso-5-marzo-2018-2.pdf).

Questo mutamento ‘qualitativo’ è confermato dallo studio realizzato dal Centro italiano studi elettorali – CISE – della Luiss: “tra tutti i partiti, nessuno mostra effetti significativi della classe sociale: la propensione a votarli (che sia alta o bassa) non varia in modo significativo tra le classi sociali;  L’unica eccezione è il PD: per questo partito si registra invece una propensione al voto bassa nelle classi sociali basse e medie, e invece sensibilmente maggiore nella classe medio-alta, che quindi configura un confinamento di questo partito nella classe medio-alta” (https://cise.luiss.it/cise/2018/03/06/il-ritorno-del-voto-di-classe-ma-al-contrario-ovvero-se-il-pd-e-il-partito-delle-elite/);
tanto fornisce una preziosa chiave di lettura della emorragia di voti dal PD verso forza come M5S e Lega, che appaiono politicamente molto distanti dal patrimonio culturale della sinistra, ma diventano attratori in forza di temi e parole d’ordine non adeguatamente declinate nel campo progressista, quali la sicurezza, le tutele del lavoro e il tema caldo della immigrazione.

Il risultato di LeU non si scosta, in termini di voti, da quello conseguito nel 2013 dal SEL; circa 6000 voti in più, ben lontano dalla immaginata chimera della percentuale a due cifre (http://www.cattaneo.org/wp-content/uploads/2018/03/Analisi-Istituto-Cattaneo-Elezioni-Politiche-2018-Chi-ha-vinto-chi-ha-perso-5-marzo-2018-2.pdf).

La sinistra, nel suo complesso, consegue il peggiore risultato di sempre, configurandosi come la seconda più debole in Europa (https://cise.luiss.it/cise/2018/03/05/il-peggior-risultato-di-sempre-della-sinistra-italiana/)

 


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È evidente che, parafrasando una felice espressione di un segretario dell’allora PCI, la spinta propulsiva del PD a trazione renziana è esaurita; la speranza e / o illusione di poter replicare le percentuali ottenute alle elezioni europee del 2014, già infrante dal risultato referendario del 2016, sono state duramente smentite; quel voto era una ‘apertura di credito’ nei confronti del nuovo leader del PD, apertura oggi perentoriamente ritirata, con il più che dimezzamento dei consensi.

Molto condivisibilmente, Maurizio Martina registra, nella sua relazione in Direzione, registra che “non è stata sconfitta solo una forza, la nostra. È stato sconfitto un intero campo politico e culturale. Non ho timore a dire che si è realizzata una cesura storica tra le culture fondative della Repubblica e il Paese”.

Il voto è stato descritto da molti commentatori come voto di cambiamento; personalmente, ritengo che possa meglio definirsi come di protesta, in adesione alle proposte politiche formulate dai raggruppamenti definiti sinteticamente ‘anti-sistema’, come sopra già ricordato,

soccorre sul punto un articolo di Annamaria Testa sulla rivista Internazionale, scritto, come annota l’Autrice, a urne ancora aperte, che sottolinea il carattere ‘identitario’ del voto, piuttosto che frutto di una ragionata e consapevole condivisione di posizioni politiche, tratto questo, peraltro, presente nella parte di elettorato caratterizzata da un più diretto impegno politico, ma assente nella parte maggioritaria del corpo elettorale: “Fino a oggi, si è in prevalenza pensato che la scelta di votare riflettesse un giudizio razionale, a partire da un confronto tra ciò che ciascun elettore desidera e ciò che ciascun candidato, o partito, promette. Ma sembra che non sia proprio così, e non solo per via del paradosso elettorale, identificato nel 1957 dall’economista Anthony Downs (le persone vanno a votare anche se sanno che il loro singolo voto, da solo, non cambia le cose. Dunque compiono un atto che, in termini di costi-benefici, è diseconomico).
Che per molte persone anche l’atto di votare sia in primo luogo un’espressione d’identità è quanto invece afferma una recente ricerca che integra psicologia e neuroscienze, condotta dalla Duke University: il voto, dicono i ricercatori, non dice tanto che cosa vogliamo quanto chi siamo.
Bene: queste elezioni ci offrono un’occasione per osservarci in uno specchio individuale e collettivo. Ho scritto questo articolo a urne ancora aperte, sperando che osservandoci in quello specchio potremo, se non proprio piacerci, almeno riconoscerci.

Delle molteplici con-cause che hanno determinato la scelta dell’elettorato italiano si potrebbe (e si dovrà) discutere a lungo, anche in relazione ai risultati dei singoli partiti;

volendo arrischiare una azzardata sintesi, penso che il tratto comune delle scelte identificate come ‘populiste’ possa riconosciuto in quella che definirei la seducente hybris della semplificazione; il termine di derivazione greca, può essere reso con insolenza, tracotanza (per la sua origine come prevaricazione dell’uomo contro il volere divino, rinvio a  http://www.treccani.it/vocabolario/hybris/), sta a indicare la impaziente voluttà di ricercare soluzioni lineari e semplici a problemi di notevole complessità  e articolazione; a fronte di una realtà estremamente articolata, resa sgradevole dalla pesante crisi economica e dalle emergenze quotidiane, si propone una ricetta (elettorale) con soluzioni estremamente semplificate, quale ad esempio la chiusura delle frontiere /caccia all’immigrato piuttosto che un esteso reddito di cittadinanza o una agitata uscita dall’euro;
tale atteggiamento fa il paio con la rilevazione della ‘sfiducia nel futuro’ fatta nel dicembre 2017 dall’istituto Demos di Ilvo Diamanti (http://www.demos.it/a01485.php?ref=RHPPLF-BL-I0-C8-P2-S1.8-L), sfiducia presente in misura significativamente maggiore rispetto alla media nei gruppi politici del M5S, Lega e LeU; sono appena al di sotto della media nazionale Forza Italia e Fratelli d’Italia, mentre resta molto al di sotto (16 punti percentuali) la base elettorale del PD.

per converso, i raggruppamenti progressisti (di sinistra) tendono a coltivare la fascinosa consapevolezza della complessità, indugiando nell’analisi di aspetti molteplici ed eterogenei della realtà, al fine di costruire una proposta politica, che volendo tener conto di tali articolazioni, non può che risultare laboriosa e non lineare ed apparire come inidonea a realizzare soluzioni di semplice ed immediato approntamento, soluzioni, del resto, non possibili nel governo di società articolate come le odierne;

chiudo queste prime riflessioni con un’altra citazione della già richiamata relazione di Maurizio Martina 'Il successo non è mai definitivo, la sconfitta non è mai fatale; è il coraggio di continuare che conta'  diceva Winston Churchill.