martedì 11 dicembre 2018

Il PD: chi era costui ?


E soprattutto chi sarà ? O meglio cosa potrebbe (vorrebbe) essere ?

Questa è la domanda sottesa del congresso 2019 e parzialmente disvelata dal ritiro della candidatura di Marco Minniti; la decisione è ufficialmente motivata dallo stesso Minniti con la esigenza “irrinunciabile che il congresso ci debba consegnare una leadership forte e legittimata dalle primarie”, aggiungendo la considerazione che “ho però constatato che tutto questo con così tanti candidati potrebbe non accadere. Il mio è un gesto d’amore verso il partito”.

In realtà sembra che il motivo profondo ed ultimo sia il disinteresse dichiarato da Renzi verso le vicende congressuali; nata come candidatura dell’area renziana del partito, la ambiguità della attuale posizione dell’ex segretario avrebbe fortemente inciso, rendendo incerto l’orizzonte strategico della corsa alla segreteria di Minniti.

E qui riaffiora il nodo non sciolto di questa stagione contrattuale e che ne ha determinato una partenza al rallentatore, dopo un anno esatto dalla pesante sconfitta del 4 marzo 2018: cosa fare del passato (e degli uomini che lo maggiormente incarnato) e quale direzione futura intraprendere (e con quali leader).
Il piano inclinato nell’interpretare il congresso come una ‘resa dei conti’ tra leader contrapposti, ed in particolare contrapposti a Renzi, ha impedito per tempo l’avvio di un vero dibattito politico che possa affrontare prioritariamente le questioni organizzative del partito che verrà e il programma politico da sottoporre agli elettori.

Questo piano inclinato è un amaro lascito della imperante personalizzazione dell’attività politica, costruita sempre più attorno ad un leader che, piuttosto che essere alfiere di un progetto politico elaborato dal soggetto collettivo partito, è esso stesso il progetto politico, dettandone le linee e gestendole secondo esigenze più personali che del gruppo: simul stabunt, simul cadent.

La personalizzazione, nata nel campo del centrodestra, ha sempre più contaminato anche lo schieramento progressista ed il PD, intrappolando la dialettica politica interna, connaturata in un gruppo articolato, in un loop infinito e sterile, configurato su due uniche posizioni possibili : pro o contro il leader di turno.
Tale impostazione trascura due elementi essenziali di un corretto e positivo rapporto tra il leader ed il gruppo; il leader nel suo ruolo di guida conduce il gruppo e dà allo stesso prospettive di azione e sviluppo sempre più feconde ed efficiente; nel contempo, però, lo stesso leader è debitore del gruppo per la sua posizione di preminenza rappresentativa.

In altri termini, per restare nella cronaca di questi giorni, è ben vero che Renzi, nella sua veste di segretario, ha dato molto al PD, conseguendo risultati elettorali e politici di attuazione del programma vasti e notevoli; ma è altrettanto vero che Renzi, senza il PD, sarebbe ancora oggi un oscuro consigliere provinciale o regionale della sua regione di nascita; e sfido chiunque (tranne, per ovvie ragioni, i fiorentini ed i toscani) a ricordare il nome di un consigliere della provincia di Firenze o della regione Toscana.

A questo aspetto è direttamente collegato l’altro elemento, costituito da quella che potremmo designare come responsabilità del singolo leader nei confronti del gruppo che lo ha designato; nei momenti di scelte impegnative, come questa che dovrà essere oggetto del congresso, è necessario anteporre ai propri personali desideri o aspirazioni l’interesse ed il cammino strategicamente politico del gruppo partito.

La ormai ufficializzata scelta di Renzi di non partecipare di nuovo al congresso come candidato segretario, se da un lato determina uno schiarimento dell’orizzonte politico di svolgimento dello stesso, dall’altro non appare in linea con la su delineata responsabilità del leader nei confronti del partito che lo ha investito della massima rappresentanza, specie nella motivazioni addotte, conservando un consistente margine di ambiguità; affermare che sia meglio occuparsi della opposizione all’attuale governo – obiettivo peraltro condivisibilissimo – piuttosto che delle vicende congressuali del proprio partito, appare come un fuga da quanto realizzato sinora, grazie anche al proprio partito; la posizione assunta svilisce e rinnega il ruolo del partito quale potente strumento di azione politica: quale migliore strumento del gruppo organizzato per realizzare una opposizione determinata ed efficiente al governo ?

Anche qui è evidente il frutto avvelenato della personalizzazione : sono io leader che conduco l’opposizione ed il partito mi seguirà e non più correttamente e proficuamente condurre l’azione politica di opposizione tramite il gruppo, che si rappresenta come leader scelto dalla comunità organizzata (e non investito da astratte entità terze).

La teoria del ‘fuoco amico’ che avrebbe determinato la sconfitta (si badi, del PD, e non) di Renzi, continua a perpetuare la trappola del personalismo, che non riesce a distinguere il progetto politico del gruppo partito dal programma del leader; confusione oggi esiziale per le sorti del PD.

Valga la considerazione, quasi cronachistica, del fatto che chi ha maggiormente avversato l’ex segretario, (per i più svariati motivi, anche qui in molti casi di natura più personale che squisitamente politica), o è stato da questi avversato, ha abbandonato la nave del partito da tempo, con miseri raccolti elettorali, rispetto alle aspettative, fino ad un odierno finale ‘rompete le righe’ del cartello elettorale creato per l’occasione; tanto dimostra la attuale inconsistenza della tesi come causa efficiente, riducendosi la stessa ad un mero alibi per tentare di eludere gli errori politici commessi.

È vitale per le future sorti del PD e di un suo rilancio e ripresa presso gli elettori focalizzare il dibattito congressuale sulla concezione del partito come gruppo organizzato determinante la propria linea politica, attraverso il confronto democratico di diverse posizioni, in una sintesi che sarà consegnata per l’attuazione al segretario ed alla segreteria, abbandonando la deriva deleteria di una concezione personalistica del leader.

In questa prospettiva sarebbe proficuo esplorare e considerare ulteriori convergenze degli attuali candidati alla carica di segretario, peraltro positivo sintomo della ricchezza del dibattito interno al gruppo partito, scremando le candidature a due / tre al massimo ancor prima delle convenzioni di circolo.
Tanto consegnerebbe al vincitore un risultato finale chiaro e netto, frutto di una scelta ragionata e trasparente della platea elettorale, determinandone un forte mandato politico.

La convergenza, di queste ore, del gruppo Laburisti Democratici, con il suo leader Cesare Damiano, sul candidato Nicola Zingaretti è un segnale di conferma e confortante di una politica ragionata ed includente, in cui il bene comune prevale sulle aspirazioni personali del singolo.