sabato 27 dicembre 2014

For a job without act

Con la sentenza  n. 231/2013, per vero poco commentata, la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’articolo 19, primo comma, lettera b), della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda.

La Corte, rileggendo la norma alla luce dei nuovi sviluppi delle relazioni sindacali e in difformità a precedenti pronunce (sentenza n. 244 del 1996, e la ordinanza n. 345 del 1996), afferma un principio di profonda democrazia sindacale, sul rilievo contenuto nella memoria difensiva della FIOM-Federazione provinciale di Modena secondo cui “ormai la contrattazione collettiva ha perso il carattere acquisitivo che ha avuto per molto tempo. Oggi, non solo negli accordi gestionali delle situazioni di crisi, ma anche nei rinnovi nazionali la stessa contrattazione collettiva ha sovente un prevalente contenuto ablativo, e la forza del sindacato si manifesta non tanto nella capacità di acquisire nuovi diritti ad ogni tornata contrattuale, come è avvenuto per tanto tempo, quanto nella capacità di resistere alle sempre più pressanti ed estese richieste di flessibilità avanzate dalle imprese”.

Una diversa lettura della norma si porrebbe in insanabile contrasto con il precetto dell’art. 39 Cost., incidendo negativamente sulla libertà di azione del sindacato, la cui decisione di sottoscrivere o no un contratto collettivo ne risulterebbe inevitabilmente “condizionata non solo dalla finalità di tutela degli interessi dei lavoratori, secondo la funzione regolativa propria della contrattazione collettiva, bensì anche dalla prospettiva di ottenere (firmando) o perdere (non firmando) i diritti del Titolo III, facenti capo direttamente all’associazione sindacale”; tanto si tradurrebbe, per un verso, in una forma impropria di sanzione del dissenso, che innegabilmente incide, condizionandola, sulla libertà del sindacato in ordine alla scelta delle forme di tutela ritenute più appropriate per i suoi rappresentati; mentre, per l’altro verso, sconta il rischio di raggiungere un punto di equilibrio attraverso un illegittimo accordo ad excludendum.

Sulla scorta di tali argomentazioni, la censura di incostituzionalità come da dispositivo summenzionato.
***
Il noto job’ act, consacrato nella legge delega 183 2014 del 10.12.2014, è stato pubblicato in GU n.290 del 15-12-2014.

La delega risulta molto ampia, prevedendo interventi dalla normativa in materia di ammortizzatori sociali a quella  in  materia  di servizi per il lavoro e di politiche attive, dalle disposizioni di semplificazione  e razionalizzazione delle procedure e degli  adempimenti  a  carico  di cittadini e imprese, alla revisione  e l'aggiornamento delle misure volte a  tutelare  la  maternità  e  le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, sino al riordino dei contratti di lavoro vigenti.

Tale vastità fa da contraltare ad una discussione per l’approvazione condotta più a suon di slogan dal vago sapore esorcistico che con un reale confronto sui singoli problemi, sottraendosi il Governo al doveroso confronto con le parti sociali ed limitandosi ad un incontro con il sindacato tanto formale quanto vuoto di sostanza, nel quale i Renzi’s boys hanno fatto mero atto di presenza.

Con inusuale velocità il Governo, alla vigilia di Natale, dopo soli 9 giorni dalla pubblicazione della legge delega, ha licenziato la bozza del primo delegato, relativo appunto al riordino dei contratti di lavoro vigenti ed alla molto contestata nuova disciplina dei licenziamenti economici.

In tale decreto, all’art. 10,  è introdotta (a sorpresa) la estensione della nuova disciplina dei licenziamenti anche all’ipotesi di licenziamenti collettivi.

Lasciando in disparte rilievi strettamente giuridici, quali la possibile violazione della delega, che parlava di licenziamenti economici tout court, sembrando voler disciplinare i licenziamenti individuali, dato che i licenziamenti collettivi sono oggetto da tempo di specifica e diversa disciplina, nonché un verosimile contrasto con la normativa europea in materia di licenziamenti collettivi (Direttiva 98/59/CE del Consiglio del 20.07.1998 concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi), dal momento che la prevista sola sanzione economica, nel caso di violazione, sostanziale e non solo formale, delle procedure, ne determina lo svuotamento di fatto, con menomazione della tutela dei lavoratori, va qui sottolineato l’aspetto eminentemente politico.

Il dibattito volutamente opaco sino al rifiuto del confronto con il sindacato, esternato come vanto di efficienza, la velocità estrema nell’attuazione sono elementi che stravolgono il sistema di relazioni dei tre soggetti del mondo del lavoro, Governo, sindacati, associazioni datoriali, per come sino a qualche tempo fa conosciuto; non può non leggersi una volontà di sottrarre momenti essenziali del rapporto di lavoro, come il licenziamento, (e forse non solo quello) al controllo sociale e democratico esercitato dal sindacato, quale soggetto collettivo e politico; controllo che è, invece, descritto come ostacolo allo sviluppo economico.

È una deriva che va in direzione esattamente opposta al principio di democrazia sul luogo di lavoro, riconosciuto con la sopra ricordata sentenza della Corte Costituzionale n. 231/2013, che ha affermato a chiare lettere che il sindacato ha diritto anche a non sottoscrivere il contratto aziendale e per ciò solo non può essere estromesso dal suo ruolo istituzionale di rappresentanza all’interno della fabbrica.


È legittimo domandarsi se il fine recondito, e neanche tanto, sia quello di “ripristinare per tale via il ruolo effettivo del sindacato di collaboratore del fenomeno produttivo in luogo di quello illegittimamente assunto di interlocutore in vista di decisioni politiche aziendali e governative”. (punto 3 lett b, paragrafo Procedimenti, del piano di rinascita democratica di Licio Gelli, 1976).

venerdì 26 dicembre 2014

Documento programmatico dell’Alleanza delle Cooperative della Calabria e sperimentalismo democratico

L’accorato grido di dolore e, a un tempo, di autentico richiamo ad una non più rinviabile assunzione di responsabilità, contenuto nel Documento programmatico dell’Alleanza delle Cooperative della Calabria, non può essere eluso (http://noallalistadellaspesa.confcooperativecalabria.it/).

Una delle parti imprenditoriali più avvertita e consapevole della nostra Calabria tratteggia un quadro di analisi e di possibile risposta, sia pur in grandi linee ed in modo sintetico, che assume le sembianze (quasi una risposta) a quel nuovo linguaggio che inizia a parlarsi anche nei territori della politica e dei partiti: il confronto sui temi concreti, guidati da una consapevolezza identitaria e dall’esperienza maturata dal confronto con la società tutta, nella intima convinzione che la situazione attuale richiede un sforzo straordinario e congiunto di tutti gli operatori politici, istituzionali economici e sociali.

La parole di Aldo Moro, già ricordate (http://francescoattanasiocv.blogspot.it/2014/12/tra-proprieta-democratica-e-pippo.html), indicano una strada antica e mai fino in fondo percorsa.

Il confronto aperto e senza ipocriti infingimenti o miseri calcoli di convenienza, che piegano reali esigenze a asfittici strumenti per la malevola conservazione di posizioni di potere, deve essere ora convintamente coltivato dai soggetti politici e istituzionali, per uscire da questa drammatica situazione.


Insieme !

mercoledì 17 dicembre 2014

Tra Proprietà Democratica e Pippo Dissidente


La vignetta di Giannelli sul Corriere della Sera di lunedì scorso, tutta giocata su una ‘reinterpretazione’ della sigla del Partito Democratico, riesce ad essere una emblematica istantanea dell’attuale situazione del partito.

Sembra infatti che le due linee apparentemente prevalenti siano quella di Renzi, sempre più sull’abbrivio dell’one man’s party, e l’altra nostalgica e celatamente (ma non tanto) frazionistica di Pippo Civati.

Un partito, che è il naturale erede della stagione dell’Ulivo e nasce sul terreno fecondato da quella esperienza, non merita prospettive così anguste, specie quando diviene il riferimento del 40% degli elettori.

È ineludibile coltivare altre strade e  visioni; 

profetiche suonano oggi le parole pronunciate da Aldo Moro nel suo intervento al Consiglio Nazionale DC, il 18 gennaio 1969:
“Parliamo, giustamente preoccupati, di distacco tra società civile e società politica e riscontriamo una certa crisi dei partiti, una loro minore autorità, una meno spiccata attitudine a risolvere, su basi di comprensione, di consenso e di fiducia, i problemi della vita nazionale (…) Noi vogliamo corrispondere sì, capendo e facendo, all’inquieta richiesta della nostra società, ma ostruiamo poi contraddittoriamente i canali che potrebbero portarne nel partito, proprio nel partito, quella carica di vitalità e di attesa che è pure nel nostro paese. Sicché essa finisce per riversarsi altrove, mettendo in crisi la funzione dei partiti, i quali sovente fronteggiano dall’esterno, senza un’esperienza interiore vissuta del dramma sociale del nostro tempo, le situazioni che si presentano e spesso si esauriscono senza autorevole mediazione, nella società civile”.


Occorre solo il coraggio di percorrerle e perseguirle fino in fondo.

lunedì 15 dicembre 2014

Il Partito capitale e non solo, al tempo di Matteo (Orfini) e Matteo (Renzi)


Matteo Orfini, Presidente del PD, ha annunciato di aver ottenuto la disponibilità di Fabrizio Barca a verificare lo stato del tesseramento e l'attività nei circoli della capitale, a seguito delle diverse segnalazioni di irregolarità negli ultimi mesi;
la notizia, annunciata nel corso di una partecipata assemblea, convocata presso la biblioteca Elsa Morante del Laurentino 38 e tenuta in piazza per la numerosa partecipazione, è a un tempo, ghiotta  e lusinghiera;

ghiotta, per la formale rottura con il passato, ipotizzando un intervento di un’autorità morale di revisione amministrativa e (inevitabilmente) politica delle sezioni romane del PD (ma che con tutta evidenza incide su una prassi presente in tutte le articolazioni territoriali del partito, sia pure in modo diverso);
lusinghiera, per il riconoscimento (profondamente) politico di un metodo teorizzato da Fabrizio Barca ed oggi oggetto di sperimentazione da parte di un team nazionale e dieci realtà locali, che coinvolgono un migliaio di volontari.

La notazione più spontanea sarebbe “finalmente !”, se non vi fosse una pericolosa ambiguità di fondo, frutto di un retro pensiero, neanche tanto travisato.

Invero, soltanto sotto la spinta di un’emergenza, anche questa volta giudiziaria, si interviene per tentare di contrastare quello che Orfini ha definito rudemente (e forse con affrettata ed emotiva analisi politica) come il vizio … capitale del partito: "Il Pd a Roma negli ultimi anni è stato segnato da un'infinita guerra tra bande e così ha preso in ostaggio migliaia di iscritti e militanti".

L’appello a Barca, sull’onda di un sentimento viscerale ed spasmodicamente ansioso di rinnovamento, ha il difetto di una opacità di obiettivi: ove si tratti di una mera revisione amministrativa, il mezzo appare sproporzionato al fine;
ove invece si voglia identificare la radice della devianza, si pone l’interrogativo della disponibilità del partito ufficiale a riconoscere e, conseguentemente, affrontare quanto risultante dall’attività ricognitiva;

tanto, perché, al netto di quelle che possono essere le temporali irregolarità amministrative, sostanziate da finti tesseramenti e simili altri trucchi elettoral-congressuali, si entra evidentemente nel campo di un’analisi squisitamente politica, laddove, il tentativo (non tanto di accertare, ma quanto piuttosto) di eliminare la devianza  implica la ineludibile necessità  di interrogarsi sulla forma partito, nel senso di identificare ed adottare le modalità organizzative che impediscano il ripetersi di tali episodi;

un partito piegato ai livelli istituzionali scivola pericolosamente verso la forma di comitato elettorale, con i circoli ridotti ad “un indirizzo dove una volta tanto si celebra un congresso”, secondo l’immagine usata da Orfini; tale deriva è, tra l’altro, favorita dall’elezione diretta dei livelli locali, creando un canale diretto tra l’eletto e gli elettori, che spesso prescinde dal partito; quest’ultimo finisce (è costretto a ?) coll’abdicare alla sua funzione genetica di luogo di elaborazione politica del programma, in riferimento ai bisogni degli iscritti e degli elettori, e di selezione della classe dirigente, lungo le coordinate del disegno strategico ed identitario così collettivamente costruito, da cui non può prescindere nessuno soggetto politico. Il progressivo scivolamento per inerzia verso la versione populistica dell’one man’s party ne è la logica conseguenza.

Il “desiderio di essere come tutto” determinato dalla “trasformazione del PD in un “Partito Mondo”, una società a capitale diffuso scalabile”, secondo la tesi di Fuksas, è una suggestiva immagine, che coglie il senso di una forte carenza identitaria, che è, a un tempo, causa ed effetto, di una molteplicità di fattori, sintetizzati nella incapacità dei partiti in genere di tornare ad essere i punti di riferimento interpretativo della società, in funzione della gestione e del cambiamento della stessa; (http://www.pdgiubbonari.net/2014/12/la-mafia-capitale-e-il-desiderio-di-essere-come-tutto/).

L’analisi di questi fattori non può che condurre alla domanda iniziale e finale a un tempo: quale modello di partito per il nuovo millennio ?

La scelta di un attore politico che ha già disegnato un preciso modello organizzativo, guidato dallo sperimentalismo democratico è un preludio ad un cambiamento di prospettiva, che data la situazione, assume necessariamente le sembianze di una rivoluzione totale nel partito per come lo abbiamo conosciuto sino ad oggi, ovvero è un’ipocrita operazione di facciata, promossa per un gattopardesco desiderio di cavalcare un’onda emotiva ?

La risposta non può che essere nell’azione dei veri militanti e dei sinceri elettori, se saranno in grado di rappropriarsi del partito, secondo il nuovo metodo, facendone un vero soggetto politico distinto e distante dalla sfera istituzionale, in un rapporto necessariamente dialettico ma ancor più ineluttabilmente autonomo; la leggenda indiana dei due lupi che albergano nell’animo di ciascuno di noi, uno cattivo e l’altro buono, in perenne lotta tra loro, lotta che vede la vittoria di quel lupo che noi stessi alimentiamo con le nostre passioni, è estremamente calzante alla delineata situazione.


Caro Fabrizio, nel partito al tempo di Matteo (Orfini) e Matteo (Renzi), non sempre si può essere sereni …

sabato 6 dicembre 2014

Eternit, prescrizione e Transatlantic Trade And Investment Partnership – TTIP

La recente sentenza della Cassazione penale, che ha annullato la sentenza di condanna del miliardario svizzero Stephen Schmideiny, imputato del reato di disastro ambientale per la fabbrica di Eternit di Casale Monferrato, ha creato una forte reazione critica.

In realtà, oggetto del giudizio era esclusivamente l'esistenza o meno del disastro ambientale, la cui sussistenza è stata affermata dalla Corte, che ha dovuto, però, prendere atto dell'avvenuta prescrizione del reato, essendosi l'evento consumato con la chiusura degli stabilimenti Eternit avvenuta nel 1986, data dalla quale è iniziato a decorrere il termine di prescrizione, per come puntualmente precisato in un comunicato della medesima Corte di Cassazione.
In altri termini, i giudici non hanno potuto fare altro che prendere atto di quanto dispone la legislazione vigente in tema di tempo entro il quale deve emettersi una sentenza definitiva di condanna del reo.
D’altro canto, il processo Eternit è in buona compagnia, come documenta Legambiente nel suo dossier sugli ecoprocessi; “Il reato è estinto per intervenuta prescrizione” è un “verdetto” che si ripete e che accomuna ormai molti dei più importanti processi penali italiani su reati e disastri ambientali come quello riguardante la discarica di Pitelli (La Spezia) al centro di un traffico di rifiuti, il petrolchimico di Porto Marghera, la discarica del Vallone all’isola d’Elba, il processo Artemide sui rifiuti interrati nella piana di Sibari, in Calabria, o il processo Cassiopea, quest’ultimo definito come una delle più grandi inchieste mai fatte in Italia nell'ambito della gestione illecita dei rifiuti. Altri processi, ancora in corso, sono a rischio di prescrizione (http://www.legambiente.it/contenuti/comunicati/disastri-impuniti-la-mappa-dell-italia-ferita-e-bloccata-dagli-ecocriminali-e-d).

Trovo oggi fortemente ipocrita il coro di voci che si è levato per una urgente (?!) modifica della disciplina della prescrizione, nel senso di allungarne i tempi;
a parte la considerazione che, invece di allungare i tempi per definire i processi, sarebbe più logico e, soprattutto, più civile e giusto, porsi l’obiettivo di abbreviare la durata degli stessi, sia civili che penali, è sufficiente richiamare alla memoria il (a tratti furente) dibattito di qualche tempo fa, che ha preceduto l’introduzione della normativa che abbreviava sensibilmente i tempi di prescrizione (Cicero pro domo sua …); testimonianza purtroppo indelebile di un uso spregiudicato delle istituzioni, utilizzate per fini personali e non nell’interesse pubblico
oggi, si vuole ripercorrere la strada inversa, con una proliferazione di modifiche legislative, che definire schizofrenica apparirebbe come un complimento.

Il dato più rilevante è, però, quello più squisitamente politico, che nel dibattito seguito alla pronuncia della Cassazione, tutto focalizzato sul singolo provvedimento, è risultato del tutto defilato;
la produzione di Eternit è stata realizzata (per vero, in un tempo in cui la consapevolezza ambientale non era così attenta e vigile come oggi) senza tenere in debito conto le conseguenze negative possibili (e poi rivelatesi drammaticamente vere) dei metodi e delle sostanze usate nel processo produttivo;
l’interesse del capitale privato è stato assolutamente prevalente rispetto all’interesse pubblico ad una vita ed un ambiente sani e salubri, sino a determinare un notevole danno in termini di ambiente e di vite umane, con un rilevantissimo costo sociale (riservando, per contro, al privato un lucroso profitto);
basti pensare che i costi sopportati dall’Inail per le sole prestazioni mediche ai lavoratori colpiti dalle patologie provocate dall'amianto ammontano 280 milioni di euro, che non si recupereranno più perché il verdetto della Cassazione ha annullato in radice il processo.
Tale pericolosa filosofia fa il paio con altri episodi lontani (come il famigerato Talidomide) o più vicini nel tempo (i pediatri che prescrivono l’allattamento artificiale, anche se non necessario), in cui è l’interesse (superiore ?!) della produzione industrialmente organizzata a dettare le regole, massimizzando il profitto per il privato e trasferendo sul pubblico e la collettività i danni e i relativi costi.

Pericoloso epigono di tale impostazione appare oggi il Trade And Investment Partnership – TTIP -, il trattato di libero scambio in discussione tra Europa, Usa e Canada;
il dato più singolare e preoccupante di tale documento è la sua blindata secretazione, per cui non è noto né lo stato della discussione, né tantomeno il suoi contenuti specifici, salvo alcune rare indiscrezioni;
un trattato che ha la pretesa di regolare per i prossimi decenni la produzione e la commercializzazione dei beni tra i paesi partecipanti, unificando gli standard di comercializzazione degli stessi, ha il dovere della massima trasparenza, atteso il notevole divario della normativa in tema di sicurezza, in particolare degli alimenti, tra la normativa europea e quella di USA e Canada;
va quindi sostenuta l’iniziativa dei responsabili di "Stop Ttip", che unisce 320 organizzazioni di 24 Paesi, che hanno raccolto in due mesi più di un milione di firme di cittadini europei contrari al trattato, per bloccare il negoziato o per ricominciarlo su basi completamente diverse, (http://www.repubblica.it/economia/2014/12/05/news/un_milione_di_firme_contro_il_libero_scambio_dagli_ogm_ai_farmaci_le_paure_degli_europei-102158371/).


Ma di questo parleremo più approfonditamente in un prossimo post.

lunedì 1 dicembre 2014

Elezioni regionali 2014 tra astensione e vittoria (parziale)


Nell’ultima tornata elettorale delle regionali, il dato più rilevante appare l’astensionismo, che diviene maggioritario rispetto alla percentuale dei votanti; il 56% di astenuti è il dato più alto nella serie di appuntamenti elettorali calabresi.

Le motivazioni sono diverse e riassumibili in tre considerazioni:                                                                                        
·         il dato finale, ampiamente scontato nella prevista vittoria di Oliverio e della coalizione di centro sinistra, ha reso meno determinante la partecipazione al voto, relegandola al ruolo di scelta della composizione del Consiglio regionale; la interruzione traumatica della consiliatura, con la condanna di Scopelliti, e lo sfarinamento del centro destra hanno contribuito a rendere quasi inevitabile il risultato finale;
·         l’onda lunga della disaffezione, tracimante nella diffidenza e nel rancore nei confronti della politica, vissuta come autoreferenziale, attenta ai privilegi di casta e lontana dai reali bisogni dei cittadini;
·         il reflusso del voto di protesta del Movimento 5 stelle, che nei precedenti appuntamenti elettorali aveva recuperato quote di astensionismo; la forte flessione di voti sconta la scelta fatta dal Movimento di una sterile opposizione fondata sul presuntuoso assunto di essere l’unica e totale alternativa al vituperato sistema dei partiti; il dato regionale, preannunciato dal voto comunale di Reggio Calabria, relega il Movimento in un ruolo di assoluta irrilevanza istituzionale in Calabria;

tutte le cause appaiono, per altro, riconducibili alla matrice comune del diffuso giudizio sulla incapacità dei partiti di farsi interpreti e soggetti di riferimento politico dei bisogni dei cittadini.

Altro dato da evidenziare è la comune caratteristica, per i candidati della zona del Pollino, sia del centro sinistra che del centro destra, berlusconiano e non, di essere tutti ‘istituzionali’; difatti, ricoprono al momento della candidatura, ovvero hanno ricoperto in tempi recenti, ruoli istituzionali (Presidente Parco del Pollino, consiglieri regionali uscenti, ex sindaci, ex consiglieri provinciali uscenti, ex consiglieri comunali); tale dato conferma la scarsa incisività dei partiti nel processo di selezione della classe dirigente, individuando le figure da proporre all’elettorato nelle diverse competizioni elettorali; lo stesso sistema elettorale, di elezione diretta dei candidati a Presidente della Regione e dei Sindaci (e fino a ieri dei Presidenti delle Province) contribuisce ad alimentare tale deriva;

quasi tutte le scelte dei candidati sono state fatte al di fuori delle sedi proprie delle sezioni locali e del territorio, aumentando il distacco tra partiti, elettori e gli stessi iscritti, che vedono mortificato il loro ruolo di co-decisori dei processi politici;
la sostanziale impotenza delle sezioni territoriali dei partiti nel processo di selezione ha determinato una proliferazione di candidati all’interno del medesimo territorio, anche ristretto come numero di elettori, causando una frammentazione foriera di una successiva assenza di rappresentanza del territorio medesimo; la mancata funzione di mediazione tra i vari aspiranti candidati è ulteriore abdicazione dei partiti al loro ruolo storico.

Le rilevate cause di diserzione delle urne e i delineati motivi di scelta di candidature ‘istituzionali’, come le più in grado di convogliare consensi, grazie al ruolo svolto, sono per altro due facce di uno stesso Giano: il momento di profonda crisi identitaria e di funzione (oltre che organizzativa) dei partiti.

La scelta di rispondere a tale situazione con modelli di one man’s party, costruito ad immagine e somiglianza del leader, o di partito leggero o liquido relegato a mera funzione di comitato elettorale, non si è rivelata efficiente;
il partito del leader esiste e vince in quanto esiste e vince il leader: emblematica la parabola del Movimento 5 stelle e la fase di irreversibile crisi di Forza Italia;
il partito comitato elettorale porta a votare soltanto i sostenitori di uno o dell’altro candidato che sono ritenuti in possesso di probabili chance di vittoria, con alti tassi di astensione, come insegna l’esperienza americana;

in questa contesto è urgente ed ineludibile riflettere con un serio ed articolato dibattito all’interno delle sezioni locali del partito sulla natura e funzione dello stesso, interrogandoci come l’organizzazione partito possa tornare ad essere il soggetto politico di riferimento degli iscritti e degli elettori, rivendicando a sé il compito di attore politico essenziale;

l’avviato dibattito all’interno del PD sullo statuto è un’occasione irrinunciabile per dare corpo al partito che verrà, radicandolo nella migliore tradizione riformista italiana, riunendone le componenti comunista, socialista, cristiana, laica e libertaria, ambientalista, ed organizzandolo come soggetto aperto ed interlocutore naturale della società;

le sperimentazioni in corso dal marzo 2014 sul territorio nazionale testimoniano, da un lato, la vitalità del PD, e, dall’altro, la possibilità di costruire dal basso un nuovo soggetto politico che non sia né un one man’s party, né un comitato elettorale;

all’inizio di questo percorso “codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, dal momento che il nuovo partito sarà il risultato dell’assunzione di responsabilità di ciascuno degli iscritti e degli elettori ed attraverso questo percorso di lavoro maturerà una nuova identità.