Nel dibattito e nei commenti dopo
il 4 marzo comincia a fare capolino l’interrogativo di fondo della crisi del
Partito democratico, quello su quale sia la sua identità, ovvero,
per i più radicali, se vi sia mai stata un’identità e quale sia il modo per
(ri)costruirla.
Il PD nasce dalla unione di
gran parte delle forze del centro sinistra che avevano dato vita all’Ulivo, di
cui può essere considerato per molti versi l’erede politico, in particolare DS
e Margherita, oltre ad alcune componenti minori di provenienza socialista e
laica;
le tradizioni culturali costituenti
si identificano nella tradizione cattolico sociale, socialista e comunista e
laica, ricoprendo in larga maggioranza l’area delle forze democratiche che
diedero vita, sotto il fascismo, prima, e durante la guerra, poi, la movimento
della Resistenza da cui nacque la Repubblica italiana.
Va sottolineata la circostanza
che nell’aprile del 1948, tali forze si divisero, sotto l’influsso della c.d.
spartizione di Yalta, con la Democrazia cristiana e alcuni partiti minori a
costituire la futura area di governo, e il Fronte popolare (socialisti e
comunisti) all’opposizione;
soltanto nel dicembre 1963
inizia, con diverse difficoltà ed alterne vicende, la stagione del
centrosinistra, con la presenza organica del PSI nella maggioranza e nel
governo, per poi sfiorare, nel 1978, l’apertura allo stesso PCI, impedita dalle
tragiche vicende del rapimento di Aldo Moro.
In tutta questa fase storica,
peraltro, le stesse forze che oggi compongono il PD, nei rispettivi ruoli di
maggioranza e minoranza, sono state in grado di guidare il paese da una
situazione post bellica di disastro economico fino a giungere allo status
internazionalmente riconosciuto di una delle sette potenze più industrializzate
del mondo; tanto avvenne anche grazie agli aiuti economici forniti dagli USA
con il piano Marshall, con il quale gli USA stessi ottennero di riconvertire la
propria economia dalla fase bellica a quella di produzioni di beni e servizi
forniti agli stati europei che maggiormente avevano risentito della guerra
mondiale appena terminata.
Il ruolo delle forze di
opposizione fu quello di indirizzare il progresso economico verso una
dimensione di promozione sociale e di costruzione della nuova democrazia, dando
progressivamente attuazione alla nuova Carta Costituzionale repubblicana.
In tutta questa fase storica,
le forze che daranno vita al PD hanno dimostrato una profonda egemonia
culturale nel paese, guidandolo nell’alveo delle democrazie
occidentali ed in particolare nella costruzione del mercato comune europeo,
prologo della Unione europea.
Il PD nasce nell’ottobre del
2007 con la dichiarata ambizione di raccogliere l’eredità delle
culture summenzionate e farne forza baricentrica di governo dell’Italia.
Oggi, il PD sembra
avere smarrito la consapevolezza di quella missione che aveva
rivendicato, collezionando, dall’apice del consenso raccolto nelle elezioni
europee del 2014 (41%), una ininterrotta serie di prove elettorali negative,
sino all’attuale 18% dei consensi espressi; è ben vero che i turni elettorali
succedutisi in questo torno di tempo hanno le loro specificità e diversità non
sempre facilmente omologabili, ma incontestabilmente costituiscono un
significativo trend negativo, che induce a riflettere anche sul senso
identitario della stessa formazione politica.
Le forze costitutive venivano
dalla esperienza di partiti fortemente strutturati e presenti capillarmente nel
territorio, risultando le relative classi dirigenti
frutto di un percorso lungo e costante di formazione e rappresentanti un
soggetto collettivo articolato e complesso; forze che competevano
elettoralmente e poi si confrontavano nelle aule parlamentari per il dialettico
gioco di maggioranza e minoranza.
Negli ultimi anni, diverse
e concomitanti ragioni (la sostanziale eradicazione in via giudiziaria
di un’intera classe dirigente, nuove e diverse leggi elettorali, la erosione
delle appartenenze ideologiche, massiccio ingresso nella formazione del
consenso dei più svariati media, la stessa sempre più incombente crisi
economica) hanno creato un rifiuto verso il modello di partito come
soggetto collettivo strutturato, scivolando sempre più verso formazioni
politiche costruite attorno ad un leader ovvero guidate da una figura
forte e carismatica, con un legame intenso e diretto con il corpo elettorale,
fino a fare del partito una sorta di grande comitato elettorale del leader.
Significativo, sotto
questo angolo visuale, è stato il dibattito, largamente coevo alla
nascita del PD tra il partito forte e strutturato ed il partito leggero e ‘liquido’,
quali diverse ed alternative prospettive costituenti.
Il PD, da
Veltroni in poi, fino alla ultima e più radicale formulazione renziana, ha
vellicato ed inseguito la seconda alternativa, lasciando in ombra le
tradizioni di ragionamento collettivo delle forze fondative, nella presunzioni
di rincorrere le nuove formule di gestione del consenso.
Tale formula,
fintanto che è stata sorretta in certa misura da consensi soddisfacenti e / o
rilevanti, ha consentito al PD di svolgere la rivendicata missione di forza di
governo; oggi, con la evidente crisi di consensi, origina l’interrogativo di partenza;
voglio sottolineare che assumo
la sconfitta elettorale come dato oggettivo, senza addentrarmi in
ricerche di paternità individuali, che seguirebbero il piano inclinato della
‘personalizzazione’ del partito, obliterando le ragioni collettive della
stessa, che mi sembrano molto più interessanti da osservare, in quanto ritengo
offrano migliori vie di uscita dalla situazione odierna;
in altri termini, sostituire
un leader con un altro non mi sembra la soluzione al problema che
dobbiamo affrontare.
I partiti del c.d. secolo
breve erano espressione di una società ben strutturata e chiaramente delineata nella
proprie appartenenze di classe: il ceto operaio trovava nella fabbrica
manifatturiera (tangibile nella sua fisicità) il luogo di lavoro e nel contempo
il luogo di difesa dei propri diritti e di azione politica; la classe
imprenditoriale era l’interlocutore competitivo, anch’esso presente nel
territorio; in parallelo, il ceto impiegatizio, pubblico e privato, ed i liberi
professionisti, garantiti da livelli di reddito mediamente più alti della
classe operaia, svolgevano la loro funzione dinamica di equilibrio sociale e
sostegno all’economia interna; il mondo agricolo seguiva le sue logiche di
tentativi di modernizzazione e di crisi ricorrenti; gli studenti e i cc.dd.
intellettuali esercitavano liberamente una funzione di critica positiva.
Oggi la realtà,
sotto i colpi di maglio della innovazione tecnologica e della crisi economica, ha
sfarinato e privato delle identità caratterizzanti quasi tutti i gruppi
sociali, con una forte spinta depauperizzazione del ceto medio;
nel mondo del lavoro il
paradigma di netta distinzione tra lavoro subordinato, operaio e non, e
lavoro autonomo, costituito sostanzialmente da professionisti ed
imprenditori, è diluito in modo opaco nel c.d. popolo delle partite iva,
laddove molte attività, sotto il manto indefinito della ‘collaborazione’,
nascondono in realtà una dura esternalizzazione del lavoro subordinato;
sarebbe interessante
approfondire, in questo quadro, la figura che mi piace definire ‘imprenditore
di sussistenza’, mutuando la nota definizione salariale di marxiana
memoria; ossia, un lavoratore formalmente autonomo, che svolge la propria
attività, quasi sempre in solitario e senza dipendenti o altri collaboratori,
con un livello di fatturato talmente risibile da garantire a mala pena la
sussistenza propria e della famiglia; detta figura viene meno sia alla funzione
principale dell’imprenditore, che attraverso l’organizzazione del lavoro
proprio ed altrui, crea un incremento di ricchezza, sia alla funzione del
libero professionista, che consegue il medesimo incremento di ricchezza
attraverso il proprio sapere offerto alla consulenza verso le altrui attività
economiche, con il risultato di una società perennemente in affanno economico.
Altro dato rilevante, è una
sorta di apolidia della impresa, in special modo della grande impresa e del
capitalismo finanziario, che può essere considerato la terza fase del
modo capitalistico di produzione, dopo il capitalismo mercantile e quello
manifatturiero; la produzione di ricchezza, al contrario delle forme praticate da queste ultime due
modalità, è slegata dal territorio, laddove l’impresa manifatturiera e, ancor
più, quella agricola sono soggetti partecipi alle vicende del luogo dove si
svolge l’attività produttiva, divenendone attivo soggetto cittadino, prima, e politico,
poi.
Riporto soltanto questi due
tratti di una realtà enormemente più complessa, per dar conto delle difficoltà
di governare processi che molto spesso sono globali e
sovranazionali e quasi sempre intimamente interconnessi.
La sfida che un soggetto
politico, quale il partito, ha difronte ha questo elevato grado di
articolazione, esplicato attraverso modalità che non sono più
quelle del c.d. secolo breve, che ha visto nascere i soggetti collettivi come li
abbiamo conosciuti sinora.
Occorre, quindi, tralasciare
sterili querelle di natura personalistica, che si muovono soltanto nell’ottica
del leader e ripetono i medesimi errori che ci hanno portato sin qui, e
ricostruire un orizzonte di valori condivisi e caratterizzanti, che non
rinneghino le tradizioni storiche e le aggiornino dotandole di nuovi strumenti.
Personalmente, ripartirei
dalla costellazione disegnata dalla prima parte della nostra Costituzione
repubblicana, contenuti nei principi fondamentali e nella parte prima della
Carta; in particolare i primi dodici articoli che racchiudono i principi
fondamentali sono il distillato della elaborazione politica e giuridica del
secolo dei lumi e sicuro tracciato di azione di progresso sociale;
ricordo soltanto i primi quattro come i più
qualificanti di ogni soggetto politico che voglia definirsi
autenticamente progressista:
la Repubblica democratica fondata
sul lavoro
e la sovranità popolare (art. 1); il riconoscimento dei diritti
inviolabili dell’uomo (art. 2); principio di eguaglianza sostanziale e
l’impegno programmatico alla rimozione degli ostacoli alla attuazione
di tale principio (art 3); il diritto al lavoro (art. 4).
Potrei continuare elencando
tutti i primi 54 articoli della Carta, ma già i primi quattro indicano una
forte traccia di azione politica di carattere progressista, nel senso già delineato
da Norberto Bobbio, come tendenza alla uguaglianza delle possibilità.
Organizzare politiche di
ricostruzione e saldatura delle fratture determinate dalle forti diseguaglianze,
acuite dalla crisi e dalla globalizzazione non ancora foriera per tutti di
vantaggi, sarebbe un forte tratto identitario per una forza che vuole ambire
a guidare il cambiamento in senso progressista della società.
Il metodo da adottare deve
partire dalla complessità della realtà e dal frazionamento e diffusione dei
saperi e delle conoscenze, che devono essere ricostruiti attraverso un
confronto reale, aperto ed informato.
Soltanto una piattaforma di questo tipo,
ritengo, farà del PD nuovamente il soggetto politico di riferimento
di gruppi sociali e quote di elettorato che si oggi allontanati, non
riconoscendosi più in una identità appannata da comportamenti lontani dallo
spirito fondativo del partito.
La funzione prima di ogni
programma politico di una forza progressista è quella di disegnare una identità
riconoscibile e condivisa, che sia in grado di regalare una possibile speranza
di futuro nel progresso sociale.
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