Matteo Orfini, Presidente del PD,
ha annunciato di aver ottenuto la disponibilità di Fabrizio Barca a verificare lo
stato del tesseramento e l'attività nei circoli della capitale, a seguito delle
diverse segnalazioni di irregolarità negli ultimi mesi;
la notizia, annunciata nel corso
di una partecipata assemblea, convocata presso la biblioteca Elsa Morante del
Laurentino 38 e tenuta in piazza per la numerosa partecipazione, è a un tempo,
ghiotta e lusinghiera;
ghiotta, per la formale rottura
con il passato, ipotizzando un intervento di un’autorità morale di revisione
amministrativa e (inevitabilmente) politica delle sezioni romane del PD (ma che
con tutta evidenza incide su una prassi presente in tutte le articolazioni
territoriali del partito, sia pure in modo diverso);
lusinghiera, per il
riconoscimento (profondamente) politico di un metodo teorizzato da Fabrizio
Barca ed oggi oggetto di sperimentazione da parte di un team nazionale e dieci
realtà locali, che coinvolgono un migliaio di volontari.
La notazione più spontanea
sarebbe “finalmente !”, se non vi fosse una pericolosa ambiguità di fondo,
frutto di un retro pensiero, neanche tanto travisato.
Invero, soltanto sotto la spinta
di un’emergenza, anche questa volta giudiziaria, si interviene per tentare di
contrastare quello che Orfini ha definito rudemente (e forse con affrettata ed
emotiva analisi politica) come il vizio … capitale del partito: "Il Pd a
Roma negli ultimi anni è stato segnato da un'infinita guerra tra bande e così
ha preso in ostaggio migliaia di iscritti e militanti".
L’appello a Barca, sull’onda di
un sentimento viscerale ed spasmodicamente ansioso di rinnovamento, ha il
difetto di una opacità di obiettivi: ove si tratti di una mera revisione
amministrativa, il mezzo appare sproporzionato al fine;
ove invece si voglia identificare
la radice della devianza, si pone l’interrogativo della disponibilità del
partito ufficiale a riconoscere e, conseguentemente, affrontare quanto
risultante dall’attività ricognitiva;
tanto, perché, al netto di quelle
che possono essere le temporali irregolarità amministrative, sostanziate da
finti tesseramenti e simili altri trucchi elettoral-congressuali, si entra
evidentemente nel campo di un’analisi squisitamente politica, laddove, il
tentativo (non tanto di accertare, ma quanto piuttosto) di eliminare la
devianza implica la ineludibile
necessità di interrogarsi sulla forma
partito, nel senso di identificare ed adottare le modalità organizzative che
impediscano il ripetersi di tali episodi;
un partito piegato ai livelli
istituzionali scivola pericolosamente verso la forma di comitato elettorale,
con i circoli ridotti ad “un indirizzo dove una volta tanto si celebra un
congresso”, secondo l’immagine usata da Orfini; tale deriva è, tra l’altro,
favorita dall’elezione diretta dei livelli locali, creando un canale diretto
tra l’eletto e gli elettori, che spesso prescinde dal partito; quest’ultimo finisce
(è costretto a ?) coll’abdicare alla sua funzione genetica di luogo di
elaborazione politica del programma, in riferimento ai bisogni degli iscritti e
degli elettori, e di selezione della classe dirigente, lungo le coordinate del
disegno strategico ed identitario così collettivamente costruito, da cui non
può prescindere nessuno soggetto politico. Il progressivo scivolamento per
inerzia verso la versione populistica dell’one man’s party ne è la logica
conseguenza.
Il “desiderio di essere come
tutto” determinato dalla “trasformazione del PD in un “Partito Mondo”, una
società a capitale diffuso scalabile”, secondo la tesi di Fuksas, è una
suggestiva immagine, che coglie il senso di una forte carenza identitaria, che
è, a un tempo, causa ed effetto, di una molteplicità di fattori, sintetizzati
nella incapacità dei partiti in genere di tornare ad essere i punti di
riferimento interpretativo della società, in funzione della gestione e del
cambiamento della stessa; (http://www.pdgiubbonari.net/2014/12/la-mafia-capitale-e-il-desiderio-di-essere-come-tutto/).
L’analisi di questi fattori non
può che condurre alla domanda iniziale e finale a un tempo: quale modello di
partito per il nuovo millennio ?
La scelta di un attore politico
che ha già disegnato un preciso modello organizzativo, guidato dallo sperimentalismo
democratico è un preludio ad un cambiamento di prospettiva, che data la
situazione, assume necessariamente le sembianze di una rivoluzione totale nel
partito per come lo abbiamo conosciuto sino ad oggi, ovvero è un’ipocrita
operazione di facciata, promossa per un gattopardesco desiderio di cavalcare
un’onda emotiva ?
La risposta non può che essere
nell’azione dei veri militanti e dei sinceri elettori, se saranno in grado di
rappropriarsi del partito, secondo il nuovo metodo, facendone un vero soggetto
politico distinto e distante dalla sfera istituzionale, in un rapporto
necessariamente dialettico ma ancor più ineluttabilmente autonomo; la leggenda
indiana dei due lupi che albergano nell’animo di ciascuno di noi, uno cattivo e
l’altro buono, in perenne lotta tra loro, lotta che vede la vittoria di quel
lupo che noi stessi alimentiamo con le nostre passioni, è estremamente calzante
alla delineata situazione.
Caro Fabrizio, nel partito al
tempo di Matteo (Orfini)
e Matteo (Renzi), non
sempre si può essere sereni …
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