sabato 27 dicembre 2014

For a job without act

Con la sentenza  n. 231/2013, per vero poco commentata, la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’articolo 19, primo comma, lettera b), della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda.

La Corte, rileggendo la norma alla luce dei nuovi sviluppi delle relazioni sindacali e in difformità a precedenti pronunce (sentenza n. 244 del 1996, e la ordinanza n. 345 del 1996), afferma un principio di profonda democrazia sindacale, sul rilievo contenuto nella memoria difensiva della FIOM-Federazione provinciale di Modena secondo cui “ormai la contrattazione collettiva ha perso il carattere acquisitivo che ha avuto per molto tempo. Oggi, non solo negli accordi gestionali delle situazioni di crisi, ma anche nei rinnovi nazionali la stessa contrattazione collettiva ha sovente un prevalente contenuto ablativo, e la forza del sindacato si manifesta non tanto nella capacità di acquisire nuovi diritti ad ogni tornata contrattuale, come è avvenuto per tanto tempo, quanto nella capacità di resistere alle sempre più pressanti ed estese richieste di flessibilità avanzate dalle imprese”.

Una diversa lettura della norma si porrebbe in insanabile contrasto con il precetto dell’art. 39 Cost., incidendo negativamente sulla libertà di azione del sindacato, la cui decisione di sottoscrivere o no un contratto collettivo ne risulterebbe inevitabilmente “condizionata non solo dalla finalità di tutela degli interessi dei lavoratori, secondo la funzione regolativa propria della contrattazione collettiva, bensì anche dalla prospettiva di ottenere (firmando) o perdere (non firmando) i diritti del Titolo III, facenti capo direttamente all’associazione sindacale”; tanto si tradurrebbe, per un verso, in una forma impropria di sanzione del dissenso, che innegabilmente incide, condizionandola, sulla libertà del sindacato in ordine alla scelta delle forme di tutela ritenute più appropriate per i suoi rappresentati; mentre, per l’altro verso, sconta il rischio di raggiungere un punto di equilibrio attraverso un illegittimo accordo ad excludendum.

Sulla scorta di tali argomentazioni, la censura di incostituzionalità come da dispositivo summenzionato.
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Il noto job’ act, consacrato nella legge delega 183 2014 del 10.12.2014, è stato pubblicato in GU n.290 del 15-12-2014.

La delega risulta molto ampia, prevedendo interventi dalla normativa in materia di ammortizzatori sociali a quella  in  materia  di servizi per il lavoro e di politiche attive, dalle disposizioni di semplificazione  e razionalizzazione delle procedure e degli  adempimenti  a  carico  di cittadini e imprese, alla revisione  e l'aggiornamento delle misure volte a  tutelare  la  maternità  e  le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, sino al riordino dei contratti di lavoro vigenti.

Tale vastità fa da contraltare ad una discussione per l’approvazione condotta più a suon di slogan dal vago sapore esorcistico che con un reale confronto sui singoli problemi, sottraendosi il Governo al doveroso confronto con le parti sociali ed limitandosi ad un incontro con il sindacato tanto formale quanto vuoto di sostanza, nel quale i Renzi’s boys hanno fatto mero atto di presenza.

Con inusuale velocità il Governo, alla vigilia di Natale, dopo soli 9 giorni dalla pubblicazione della legge delega, ha licenziato la bozza del primo delegato, relativo appunto al riordino dei contratti di lavoro vigenti ed alla molto contestata nuova disciplina dei licenziamenti economici.

In tale decreto, all’art. 10,  è introdotta (a sorpresa) la estensione della nuova disciplina dei licenziamenti anche all’ipotesi di licenziamenti collettivi.

Lasciando in disparte rilievi strettamente giuridici, quali la possibile violazione della delega, che parlava di licenziamenti economici tout court, sembrando voler disciplinare i licenziamenti individuali, dato che i licenziamenti collettivi sono oggetto da tempo di specifica e diversa disciplina, nonché un verosimile contrasto con la normativa europea in materia di licenziamenti collettivi (Direttiva 98/59/CE del Consiglio del 20.07.1998 concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi), dal momento che la prevista sola sanzione economica, nel caso di violazione, sostanziale e non solo formale, delle procedure, ne determina lo svuotamento di fatto, con menomazione della tutela dei lavoratori, va qui sottolineato l’aspetto eminentemente politico.

Il dibattito volutamente opaco sino al rifiuto del confronto con il sindacato, esternato come vanto di efficienza, la velocità estrema nell’attuazione sono elementi che stravolgono il sistema di relazioni dei tre soggetti del mondo del lavoro, Governo, sindacati, associazioni datoriali, per come sino a qualche tempo fa conosciuto; non può non leggersi una volontà di sottrarre momenti essenziali del rapporto di lavoro, come il licenziamento, (e forse non solo quello) al controllo sociale e democratico esercitato dal sindacato, quale soggetto collettivo e politico; controllo che è, invece, descritto come ostacolo allo sviluppo economico.

È una deriva che va in direzione esattamente opposta al principio di democrazia sul luogo di lavoro, riconosciuto con la sopra ricordata sentenza della Corte Costituzionale n. 231/2013, che ha affermato a chiare lettere che il sindacato ha diritto anche a non sottoscrivere il contratto aziendale e per ciò solo non può essere estromesso dal suo ruolo istituzionale di rappresentanza all’interno della fabbrica.


È legittimo domandarsi se il fine recondito, e neanche tanto, sia quello di “ripristinare per tale via il ruolo effettivo del sindacato di collaboratore del fenomeno produttivo in luogo di quello illegittimamente assunto di interlocutore in vista di decisioni politiche aziendali e governative”. (punto 3 lett b, paragrafo Procedimenti, del piano di rinascita democratica di Licio Gelli, 1976).

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