Con la sentenza
n. 231/2013, per vero poco commentata, la Corte costituzionale ha
dichiarato la illegittimità costituzionale dell’articolo 19, primo comma,
lettera b), della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della
libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività
sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), nella parte in cui
non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita
anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei
contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque
partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali
rappresentanti dei lavoratori dell’azienda.
La Corte, rileggendo la norma alla luce dei nuovi
sviluppi delle relazioni sindacali e in difformità a precedenti pronunce (sentenza
n. 244 del 1996, e la ordinanza n. 345 del 1996), afferma un principio di profonda
democrazia sindacale, sul rilievo contenuto nella memoria difensiva della FIOM-Federazione
provinciale di Modena secondo cui “ormai la contrattazione collettiva ha perso
il carattere acquisitivo che ha avuto per molto tempo. Oggi, non solo negli
accordi gestionali delle situazioni di crisi, ma anche nei rinnovi nazionali la
stessa contrattazione collettiva ha sovente un prevalente contenuto ablativo, e
la forza del sindacato si manifesta non tanto nella capacità di acquisire nuovi
diritti ad ogni tornata contrattuale, come è avvenuto per tanto tempo, quanto
nella capacità di resistere alle sempre più pressanti ed estese richieste di
flessibilità avanzate dalle imprese”.
Una diversa lettura della norma si porrebbe in
insanabile contrasto con il precetto dell’art. 39 Cost., incidendo
negativamente sulla libertà di azione del sindacato, la cui decisione di
sottoscrivere o no un contratto collettivo ne risulterebbe inevitabilmente “condizionata
non solo dalla finalità di tutela degli interessi dei lavoratori, secondo la
funzione regolativa propria della contrattazione collettiva, bensì anche dalla
prospettiva di ottenere (firmando) o perdere (non firmando) i diritti del
Titolo III, facenti capo direttamente all’associazione sindacale”; tanto si
tradurrebbe, per un verso, in una forma impropria di sanzione del dissenso, che
innegabilmente incide, condizionandola, sulla libertà del sindacato in ordine
alla scelta delle forme di tutela ritenute più appropriate per i suoi
rappresentati; mentre, per l’altro verso, sconta il rischio di raggiungere un
punto di equilibrio attraverso un illegittimo accordo ad excludendum.
Sulla scorta di tali argomentazioni, la censura di
incostituzionalità come da dispositivo summenzionato.
***
Il noto job’ act, consacrato nella legge delega 183
2014 del 10.12.2014, è stato pubblicato in GU n.290 del 15-12-2014.
La delega risulta molto ampia, prevedendo interventi
dalla normativa in materia di ammortizzatori sociali a quella in
materia di servizi per il lavoro
e di politiche attive, dalle disposizioni di semplificazione e razionalizzazione delle procedure e
degli adempimenti a
carico di cittadini e imprese,
alla revisione e l'aggiornamento delle
misure volte a tutelare la
maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e
di lavoro, sino al riordino dei contratti di lavoro vigenti.
Tale vastità fa da contraltare ad una discussione
per l’approvazione condotta più a suon di slogan dal vago sapore esorcistico
che con un reale confronto sui singoli problemi, sottraendosi il Governo al
doveroso confronto con le parti sociali ed limitandosi ad un incontro con il
sindacato tanto formale quanto vuoto di sostanza, nel quale i Renzi’s boys
hanno fatto mero atto di presenza.
Con inusuale velocità il Governo, alla vigilia di
Natale, dopo soli 9 giorni dalla pubblicazione della legge delega, ha
licenziato la bozza del primo delegato, relativo appunto al riordino dei
contratti di lavoro vigenti ed alla molto contestata nuova disciplina dei
licenziamenti economici.
In tale decreto, all’art. 10, è introdotta (a sorpresa) la estensione della
nuova disciplina dei licenziamenti anche all’ipotesi di licenziamenti
collettivi.
Lasciando in disparte rilievi strettamente
giuridici, quali la possibile violazione della delega, che parlava di
licenziamenti economici tout court, sembrando voler disciplinare i
licenziamenti individuali, dato che i licenziamenti collettivi sono oggetto da
tempo di specifica e diversa disciplina, nonché un verosimile contrasto con la
normativa europea in materia di licenziamenti collettivi (Direttiva 98/59/CE
del Consiglio del 20.07.1998 concernente il ravvicinamento delle legislazioni
degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi), dal momento che la prevista
sola sanzione economica, nel caso di violazione, sostanziale e non solo
formale, delle procedure, ne determina lo svuotamento di fatto, con menomazione
della tutela dei lavoratori, va qui sottolineato l’aspetto eminentemente
politico.
Il dibattito volutamente opaco sino al rifiuto del
confronto con il sindacato, esternato come vanto di efficienza, la velocità
estrema nell’attuazione sono elementi che stravolgono il sistema di relazioni dei
tre soggetti del mondo del lavoro, Governo, sindacati, associazioni datoriali,
per come sino a qualche tempo fa conosciuto; non può non leggersi una volontà
di sottrarre momenti essenziali del rapporto di lavoro, come il licenziamento,
(e forse non solo quello) al controllo sociale e democratico esercitato dal
sindacato, quale soggetto collettivo e politico; controllo che è, invece,
descritto come ostacolo allo sviluppo economico.
È una deriva che va in direzione esattamente opposta al principio di democrazia sul luogo di lavoro, riconosciuto con la sopra
ricordata sentenza della Corte Costituzionale n. 231/2013, che ha affermato a
chiare lettere che il sindacato ha diritto anche a non sottoscrivere il
contratto aziendale e per ciò solo non può essere estromesso dal suo ruolo
istituzionale di rappresentanza all’interno della fabbrica.
È legittimo domandarsi se il fine recondito, e
neanche tanto, sia quello di “ripristinare
per tale via il ruolo effettivo del sindacato di collaboratore del fenomeno
produttivo in luogo di quello illegittimamente assunto di interlocutore in
vista di decisioni politiche aziendali e governative”. (punto 3 lett b,
paragrafo Procedimenti, del piano di rinascita democratica di Licio Gelli, 1976).